Bene comune: una nozione solo apparentemente scontata

Molto spesso sentiamo parlare di “bene comune” e, per lo più, tale espressione suscita simpatia e spontanea adesione. Non è un caso che un richiamo al bene comune ricorra in quasi tutti i programmi elettorali, siano essi di destra, di centro o di sinistra; tanto a livello locale, quanto nazionale. 

Tutto bene, quindi? Non proprio. Infatti, non appena si prova a chieder conto di cosa si intenda, esattamente, per bene comune, subito il politicamente corretto sembra imporre una brusca retromarcia. Definire in modo più preciso tale concetto – offrirne, come direbbero i filosofi, una “visione sostanziale” – potrebbe essere letto come un tentativo di limitare la libertà e l’autonomia dei singoli cittadini nel loro, personale, volgersi al bene. Come dire: poiché ciascuno ha la propria, peculiare idea di ciò che è bene (per lui o per la sua comunità di riferimento) non è opportuno offrire una visione che pretenda di essere valida per tutti. 

Così, alla fin fine, si fa strada l’idea che, all’interno delle nostre società liberali e pluralistiche, non sia possibile convenire su una concezione condivisa del bene comune. Meglio, quindi, limitarsi a un più generico riferimento all’utilità comune, oppure all’interesse generale; al più richiamando l’importanza di alcuni beni comuni (come l’aria, l’acqua o la bellezza di un territorio). I beni comuni, tuttavia, sono altra cosa dal bene comune, inteso quest’ultimo come quel bene che accomuna i singoli e consente loro di fiorire in pienezza. 

Da queste brevi battute è chiaro che ci troviamo di fronte a un problema non facile; cercare di risolverlo in poche battute sarebbe pretenzioso. Quello che si può fare, però, è provare a riflettere ancora un po’ attorno a tale concetto. Tradizionalmente, il discorso sul bene comune conclude un ragionamento più ampio. L’idea di fondo è che l’essere dell’uomo – la sua “architettura essenziale” – rimanda a un preciso dover essere, ovvero presuppone un ideale di maturazione e di perfezionamento. E poiché la condizione umana è caratterizzata dalla libertà e dalla responsabilità, allora questa tensione perfettiva non si realizza spontaneamente, ma rappresenta un compito o, se preferite, una vocazione che deve essere scelta e promossa con impegno e dedizione. Non solo. Poiché, fin dai tempi di Aristotele, l’uomo è stato definito come un “animale sociale” – ovvero un io strutturalmente legato a un noi – tale vocazione alla piena realizzazione di sé non può realizzarsi se non nel contesto della città, cioè all’interno di una società capace di custodire e promuovere l’eccellenza dell’umano. In quest’ottica, persona e bene comune rappresentano i due termini essenziali di un unico discorso sulla condizione umana e sulla socialità quale spazio di maturazione e di perfezionamento del singolo. 

Il bene comune, pertanto, poggia su ciò che accomuna le persone, al di là delle loro differenze e peculiarità. Tale comunanza, però, non è scontata, né è chiaramente evidente. Compito di ogni società, dunque, è riconoscerla e promuoverla concretamente. Da questo punto di vista il bene comune storicamente possibile rappresenta qualcosa verso cui tendere assieme; è un progetto attorno a cui riunirsi e per il quale impegnarsi. 

Da dove iniziare allora? Come vincere lo scetticismo che sembra caratterizzare le nostre società? Se la determinazione positiva del bene ci sembra essere così divisiva, almeno in prima battuta, forse potremmo iniziare dalla presa d’atto dei mali dai quali vorremmo tenerci alla larga o dai quali, una volta caduti, vorremmo liberarci. Solitamente su questi temi la convergenza è più facile. Nel dolore e nella difficoltà, per quanto paradossale, ci sentiamo più uniti. Potremmo, allora, provare a riprendere il discorso sul bene comune a partire dalla presa d’atto delle fragilità e delle vulnerabilità umane, avendo cura di ciò che impedisce all’umano di realizzarsi compiutamente. Una società attenta ai bisogni degli ultimi, infatti, è una società capace di non escludere nessuno e di promuovere, realmente, il bene comune e non solo l’utilità generale. 

Con un’immagine molto efficace Stefano Zamagni, voce autorevole dell’economia civile, è solito dire che l’utilità generale segue la logica della sommatoria, mentre il bene comune quella della moltiplicatoria. Se sommiamo l’apporto dei singoli, cresce, anche se alcuni non portano alcun contributo. Se, invece, moltiplichiamo gli stessi valori, il risultato aumenta a dismisura, ma a una condizione: che nessun fattore sia zero. Fuori di metafora: se riusciamo a costruire una società dove nessuno resta escluso, se realizziamo un modo di stare assieme in cui tutti riescono a offrire un contributo utile, allora il valore della nostra comunità può crescere a dismisura!

* Pubblicato su "PrimaPagina", 3-4, 2023