Oltre lo sharing, per inventare un futuro a misura d’uomo

 

 

I giovani d’oggi sembrano essere particolarmente disponibili alla condivisione: dal cohousing al coworking, passando per le differenti forme di sharing, essi paiono meno interessati al possesso esclusivo dei beni e guardano, con sano pragmatismo, a una più agevole fruizione di essi. Spesso, infatti, affittare o condividere è più conveniente che acquistare per sé, e quando le risorse disponibili sono ridotte, la scelta potrebbe essere quasi obbligata. Tuttavia, sarebbe bello se essi scoprissero anche il valore della cooperazione; non solo condividere casa, spazi di lavoro, oggetti o servizi, ma impegnarsi assieme per conseguire obiettivi comuni. Il passo avanti sarebbe notevole. Va detto, però, che questa seconda prospettiva non sembra suscitare un fascino irresistibile. Come mai? 

 

Ho il forte sospetto che la mia generazione condivida con quelle che l’hanno immediatamente preceduta la responsabilità di aver dato per scontato il significato della tradizione cooperativa, lasciando che la memoria della sua storia e, forse, dei suoi stessi valori restassero a prender polvere in cantina anziché generare nuove forme di innovazione sociale ed economica. Così facendo, si è contribuito al diffondersi di una cultura lavorativa sempre più individualistica. 

 

Come ci spiegano i sociologi, soprattutto dopo l’ubriacatura del “tutto è politica” e delle grandi battaglie sindacali, è cominciata una progressiva ritirata nel privato e si è diffusa l’idea che, in fondo, ciascuno dovesse farsi strada da solo. Da qualche tempo, per la verità, le cose sembrano andare in una direzione diversa; si avverte una maggiore voglia di Comunità e, come detto, i ragazzi sembrano oggi meno gelosi dei loro beni e più disponibili a condividere (magari anche solo per risparmiare); eppure, essi non paiono altrettanto propensi a lasciarsi coinvolgere in avventure di cooperazione. Perché? 

 

Forse, tra le cause di questa sfiducia, va indicato anche un modo non sempre corretto di proporre tale modello, troppo spesso utilizzato come mera strategia di riduzione dei costi. Non è raro, infatti, che i giovani cooperatori sperimentino situazioni di lavoro mal retribuito, in contesti che non ne valorizzano i talenti e che non offrono forme autentiche di partecipazione democratica. La cattiva moneta, come ricorda la cosiddetta legge di Gresham, scaccia quella buona e così pessime esperienze di presunta cooperazione ne appannano le potenzialità e ne sviliscono il fascino. Un vero peccato, anche perché le nuove generazioni sembrano sinceramente desiderose di ripensare i tempi e le forme del lavoro, trovando il modo di conciliare necessità economiche e benessere socio-relazionale. 

 

A loro, quindi, andrebbe raccontata la storia di chi a quella possibilità ha creduto e, con creatività e coraggio, ha cercato di tradurre in pratica. Penso ai Probi Pionieri di Rochdale, umili operai tessili e artigiani che, nel 1844, si associarono per dar vita alla prima cooperativa di consumo. Uno strumento utile a consentire anche ai più poveri di accedere ai beni di prima necessità e, al tempo stesso, un luogo di cultura e di solidarietà. Ma penso anche alle tante imprese cooperative, alle società di mutuo soccorso e alle cooperative di credito diffuse anche sul nostro territorio fin dalla fine dell’Ottocento. Forme diverse di vivere una dimensione del “noi” capace di promuovere un senso di condivisione e di cura reciproca. 

 

Proprio perché troppo spesso dati per scontati, credo quindi utile richiamare brevemente i valori guida del modello cooperativo. Un invito ai giovani affinché considerino la possibilità di farsi eredi di una gloriosa tradizione che chiede di essere rinnovata e innovata per rispondere in modo efficace alle sfide di oggi. Da dove partire, visto il poco spazio? Direi dai fondamentali, ovvero dai sette principi guida della cooperazione, il primo dei quali è la libertà. Libertà di adesione, certo, ma anche libertà dai pregiudizi e dalle discriminazioni; libertà dai soprusi di un sistema economico che troppo spesso schiaccia le persone, anziché metterle in condizione di fiorire. E poi democrazia, che rappresenta una condizione essenziale all’esercizio della libertà e che comporta la responsabilità di essere, fino in fondo, parte di un’avventura comune. Quando si crede ad un progetto di futuro condiviso si è poi disponibili a metterci del proprio – partecipazione economica dei Soci, il terzo principio – sapendo che si contribuisce a qualcosa che non è solo nostro e che si apre a forme di mutualità interna ed esterna. 

 

Ancora, l’autonomia e l’indipendenza di un’avventura che appartiene ai Soci e che deve difendersi dai tentativi di omologazione e di controllo esterno. Questo perché la logica cooperativa, quando riesce davvero a esprimersi, rappresenta un’alternativa notevole al mercato capitalista. La cooperazione, infatti, pur esprimendo una forma di mercato interessata a produrre e distribuire beni e servizi – stiamo pur sempre parlando di economia – coniuga tale finalità con altre quali l’impegno educativo, formativo, culturale (a Rochdale, nonostante la povertà dei mezzi, venne aperta una biblioteca!); quinto principio. E poi la solidarietà tra le diverse avventure cooperative; un ideale distante dalla gelosia tipica di chi si sente in concorrenza con tutti. E, infine, l’impegno verso la Comunità, l’idea che lo sviluppo economico debba procedere di pari passo con quello sociale e ambientale; una vera ecologia integrale, come direbbe papa Francesco. Sono convinto che ai giovani che vogliono cambiare il mondo andrebbe fatta conoscere questa storia, perché difficilmente resterebbero indifferenti al suo fascino. Come sempre, però, lo strumento migliore non sono le parole, ma esempi credibili e buone pratiche capaci di tradurre quei principi in azioni coerenti. Non è facile, ma in giro ce ne sono e bisognerebbe capire come dare loro maggiore visibilità affinché possano ispirare quel cambio di paradigma di cui avvertiamo l’urgenza. 

 

* pubblicato su "PrimaCassa", 1-2, 2024.