
Partecipare a una manifestazione pubblica, oggi, è raramente un gesto semplice*.
Lo è ancora meno quando non ci si riconosce pienamente né nei toni, né nei simboli, né in alcune delle parole d’ordine scandite negli slogan o lette tra i cartelli. Ma a volte si sceglie comunque di esserci. Perché non esserci sembrerebbe peggio.
La manifestazione ieri – come molte altre – è stata una manifestazione di democrazia e un appello alla pace e alla giustizia, ma non priva di ambivalenze. Non mi piacciono i santini, così come non tollero chi parla di una “Udine messa a ferro e fuoco dai manifestanti”. Stiamo ai fatti.
Da un lato, quella manifestazione ha dato voce a un’umanità ferita, a chi non accetta la logica della forza, a chi vuol credere alla possibilità del dialogo e della riconciliazione, a chi non si accontenta di dichiarazioni retoriche e spesso ipocrite.
Dall’altro, ha raccolto accanto a sé anche slogan e linguaggi che non posso condividere. Vecchie appartenenze si sono rimescolate con nuove sensibilità cadendo in quelli che un tempo si sarebbero chiamati “opposti estremisti”. Spesso volti giovani, non di rado ingenui, capaci di gridare con rabbia sciocchezze incompatibili col desiderio di pace che sembravano voler manifestare. Ma non era quello il luogo in cui poter discutere con loro. Si poteva solo scegliere tra starci comunque o andarsene.
Si dirà: c’era anche la possibilità di allontanare i violenti. Questo è stato fatto, almeno con chi girava a volto coperto, ma non è bastato. Sappiamo – e sapevamo bene – che bastano pochi violenti (irresponsabili o mal intenzionati) per gettare discredito su tutti. Così è accaduto. Ma se non ci si vuole fermare agli slogan che si leggono in molti commenti social, forse si può provare a capire meglio e a fare qualche distinguo.
Come dicevo, se si decide di scendere in piazza mossi da un senso di profonda indignazione e da un sincero desiderio di pace si finisce (anche) per trovarsi “compagni di strada” che, su altri fronti, si contesterebbe apertamente. E questo genera una tensione difficile da risolvere. Si ha l’impressione che ogni gesto di partecipazione venga immediatamente “compromesso”, perché letto secondo la logica binaria dell’adesione o del rifiuto totale. Ma la realtà non è binaria, e le coscienze non funzionano per slogan.
E allora, come prendere posizione senza essere automaticamente identificati con tutto ciò che quella posizione implica pubblicamente? Come manifestare senza doversi giustificare per ogni altro striscione che marcia accanto? Come dire “ci sono, ma non tutto mi rappresenta”, tanto più in un tempo che non tollera le sfumature?
Questo disagio, tuttavia, non riguarda solo le manifestazioni e per questo dovremmo essere cauti nell’augurarci che non si ripetano e che le brave persone imparino a restarsene a casa. Lo stesso disagio lo viviamo in molti nel momento del voto. Non è raro votare "nonostante": non perché si aderisce con entusiasmo a una coalizione, ma perché si riconosce che l’astensione, sebbene talvolta comprensibile, non può essere la strada. Occorre prendere posizione, cercando il bene possibile, per quanto possibile.
Spesso chi sceglie di votare lo fa tra mille mal di pancia, consapevole che la realtà politica non è mai pura e che la democrazia non si fonda su identità perfette, ma su convergenze parziali, temporanee, talvolta fragili.
Votare, manifestare, impegnarsi: sono tutte forme di esposizione. E ogni esposizione è un rischio.
Ma rischiare è l’unico modo per abitare davvero lo spazio politico, per sottrarsi alla comoda inerzia di chi resta a guardare. Certo, non ogni compromesso è lecito, ma credete davvero così semplice tirare linee rette in un mondo storto?
Ancora una cosa, forse la più delicata: non dobbiamo dimenticarci che la democrazia ha un prezzo. Il prezzo del compromesso, certo. Il prezzo dei mal di pancia, come ho detto. Ma anche costi economici. Le elezioni costano, e non poco. La sicurezza dei grandi eventi politici costa. Le manifestazioni e gli scioperi – soprattutto quelli più partecipati – comportano disagi, rallentamenti, danni materiali per chi subisce la paralisi dei servizi o la chiusura delle attività. Tutto questo ha un prezzo. Può darsi che lo strumento sia stato abusato e che oggi sia logoro, però mi chiedo: sarebbe davvero un buon risparmio quello invocato da chi vorrebbe farne a meno? O non è piuttosto un segnale di fragilità culturale l’idea che la democrazia debba essere efficiente, silenziosa, indolore? I costi della democrazia sono anche il segno della sua vitalità. Una società che non sopporta più questi costi – economici, ma anche simbolici e relazionali – è una società che rischia di preferire l’ordine alla libertà.
E ancora: le manifestazioni, soprattutto quelle che nascono in modo spontaneo, senza un rigido apparato organizzativo, sono le più preziose per la cultura democratica. Sono il segno che c’è ancora un tessuto vivo, capace di indignazione e di proposta. Ma proprio per questo sono anche le più esposte a infiltrazioni e strumentalizzazioni. Penso ai gruppi che si accodano per visibilità, a slogan che banalizzano, ad atteggiamenti che allontanano. E allora torna la domanda: meglio farne a meno o cercare di valorizzarle - e di difenderle - anche sapendo che comportano un costo? E, in fondo, quanto siamo disposti a pagare per la democrazia? Siamo disposti a tollerare il disordine, l’ambiguità, la presenza di voci dissonanti? Siamo disposti ad ascoltare anche chi non la pensa come noi, a condividere lo spazio pubblico anche con chi ci infastidisce o ci provoca?
E nel dire questo non voglio fare sconti a chi ha la responsabilità di contenere, limitare, allontanare. Ciascuno per quanto può. Anche il singolo, disarmando le proprie parole, evitando di insultare o deridere chi non la pensa come lui, facendo la fatica di capire, pur magari senza condividere. Ma soprattutto chi ha responsabilità pubbliche, istituzioni, politici, giornalisti; e di pessimi esempi, in questi giorni, ne abbiamo collezionati fin troppi.
Viviamo un tempo in cui la politica – di destra e di sinistra – troppo spesso gioca una partita semplice e cinica: serra le fila tra i suoi con parole d’ordine sempre più nette e “muscolari”. Di fatto invita i moderati a stare a casa, da bravi cittadini laboriosi. Poi si prodiga in una comunicazione social volta a “spostare gli indecisi”; e lo fa anche con gli strumenti della disinformazione, delle fake news, della manipolazione emotiva.
E allora, nonostante tutto, credo che metterci la faccia sia meglio che nascondersi; che dire parole di pace, scegliendole con cura e responsabilità, sia meglio che tacere; che dare l’esempio ai più giovani di una postura democratica coerente e responsabile sia meglio che invitarli a lasciar perdere; che un giovane ingenuo – anche se dice cose stupide – sia meglio di un giovane apatico. Compito degli adulti è aiutare i giovani a consolidare una coscienza democratica più matura e coerente.
Forse è proprio su questa maturità politica che oggi dobbiamo investire: sulla capacità di agire senza illusioni, ma con convinzione; di partecipare senza ingenuità, ma senza cinismo; di accettare il confliggere delle idee differenti, ma senza farlo degenerare in scontro violento.
Direi che il lavoro non manca.
* Commento social all’indomani della manifestazione a Udine del 14 ottobre 2025, in occasione della partita di calcio Italia-Israele