EQUITÀ E MISURA. Dal regolo di Lesbo all’impresa responsabile

 

In un contesto in cui la sostenibilità e la responsabilità sociale chiedono alle imprese di andare oltre i numeri, il tema dell’equità torna al centro del dibattito: come garantire giustizia nei processi, senza rinunciare alla flessibilità e all’attenzione alle persone? È una domanda che tocca da vicino chiunque abbia responsabilità organizzative e gestionali, ma che affonda le sue radici nella riflessione filosofica più antica.

Qualche anno fa un grande filosofo americano, Michael Sandel, ha dedicato alla giustizia un famoso ciclo di lezioni (ancora disponibili su YouTube), divenuto poi un fortunatissimo libro tradotto in tutto il mondo[1]. A dare il via a questa sua ricca e articolata riflessione è un’osservazione apparentemente semplice: “Giustizia è dare a ciascuno il suo… ma qual è il suo di ciascuno?”. Domanda secca, che introduce con efficacia la complessità della questione. Una complessità di cui già Aristotele, molti secoli fa, era consapevole, al punto da dedicare a questo tema un intero libro (il quinto) della sua Etica Nicomachea. Vale la pena di partire proprio da qui.

La giustizia, nota Aristotele, ha a che fare con la capacità di costruire relazioni interpersonali all’insegna dell’equilibrio; per questo egli parla della giustizia come di una virtù dinamica, capace di individuare il giusto modo di comportarsi nelle diverse situazioni. Non è una cosa semplice. Occorre saper individuare, di volta in volta, cosa spetti davvero a ciascuno.

Nell’affrontare la questione Aristotele ci propone una disamina molto fine delle diverse forme della giustizia. C’è quella distributiva, che riguarda la ripartizione dei beni e degli oneri comuni; qui il giusto è un’uguaglianza di proporzione, perché ciascuno riceve in rapporto al contributo o al merito. C’è poi la giustizia commutativa, che regola gli scambi privati, dove l’uguaglianza è aritmetica e consiste nella corretta equivalenza tra ciò che si cede e ciò che si ottiene (siano essi merci, servizi, utilità). Infine c’è la giustizia correttiva, che interviene per ripristinare un torto, ovvero per riportare in pareggio i piatti del dare e del ricevere. A garanzia di tutto ciò, osserva Aristotele, vigila la giustizia legale, che coincide con la legge e che, con la sua universalità, offre stabilità alla vita civile. Non a caso ancor oggi scriviamo sui muri dei nostri tribunali che “la legge è uguale per tutti”, a garanzia della coesione e del legame sociale.

Torniamo un attimo a Sandel e alla sua domanda riguardo a cosa sia, davvero, “il suo” di ciascuno. Il filosofo americano, con esempi tratti dalla vita politica e dalla cronaca del suo Paese, ha mostrato come la riflessione aristotelica, pur scritta più di duemila anni fa, risulta ancor oggi preziosa per capire che la legge è sì necessaria, ma da sola non basta. Aristotele avverte infatti che la giustizia legale, per quanto indispensabile, ha un limite strutturale: essendo universale, non può prevedere la molteplicità dei casi concreti. È qui ch’egli introduce la categoria dell’equità (epieíkeia), che definisce come «correzione della legge, laddove essa, per la sua universalità, non riesce a cogliere il particolare»[2]. Per spiegarsi, Aristotele ricorre a un’immagine di grande efficacia: quella del regolo di Lesbo. Si tratta di uno strumento di misura – una riga – non rigido ma in piombo, capace di piegarsi per aderire meglio alle pietre da misurare. L’equità, come il regolo di Lesbo, non nega la regola, ma la adatta, salvando così il senso stesso della giustizia. Non si tratta di arbitrarietà, né di eccezione che smantella la norma, ma di un “raddrizzamento” del giusto legale. «L’equo – dice Aristotele – è giusto, ma non lo è secondo la legge, al contrario è una correzione del giusto legale”»[3]. È l’eccezione, come ricorda l’adagio, che conferma – e, aggiungerei, umanizza – la regola.

Enrico Berti, uno dei maggiori interpreti contemporanei di Aristotele, ha insistito con forza su questo punto. Nei suoi studi ha mostrato come l’equità non sia una virtù distinta dalla giustizia, ma la sua espressione più alta, perché porta la giustizia a realizzarsi nel concreto. Lungi dall’essere un cedimento alla soggettività, l’equità è la prova che la giustizia non è mai pura astrattezza, ma richiede l’esercizio della phronesis, la saggezza pratica che sa leggere le circostanze. L’equità è dunque il modo in cui la legge conserva il suo spirito nei casi particolari – casi d’eccezione – in cui un’applicazione rigida e letterale della norma ne tradirebbe lo spirito.

Questa idea, apparentemente astratta, trova una sorprendente attualità nel mondo delle organizzazioni. Anche l’impresa vive della tensione tra regole generali e casi particolari. Da una parte ci sono statuti, bilanci, protocolli di accesso, sistemi di valutazione e indicatori di impatto; strumenti indispensabili, perché senza regole condivise e vincolanti non esiste trasparenza né affidabilità. Dall’altra parte ci sono le persone, che non sono mai astratte. Uomini e donne in situazioni di fragilità, con biografie complesse, con bisogni che sfuggono alle griglie predefinite.

Immaginiamo un caso, a titolo d’esempio. Un bando interno prevede un limite di età per l’accesso a un servizio di riqualificazione professionale. La norma è stata scritta per garantire efficacia e sostenibilità economica; ma può accadere che una persona di poco più anziana, rimasta disoccupata dopo una vita di lavoro manuale, si presenti chiedendo di entrare. Applicare la norma alla lettera significherebbe escluderla. È qui che interviene l’equità. Essa invita a piegare la regola senza spezzarla, riconoscendo che, per realizzare lo spirito di quella norma – dare opportunità a chi ne ha bisogno – occorre derogare alla lettera. È lo stesso ragionamento che Aristotele attribuiva al giudice equo, chiamato a interpretare la legge non come un meccanismo cieco, ma come uno strumento vivo.

Un altro esempio, per chiarire meglio. Si pensi alla scelta di un’impresa di privilegiare fornitori locali meno competitivi sul prezzo ma più sostenibili; in questo caso, l’equità orienta una decisione che va oltre la logica automatica del profitto (di per sé normale in ambito aziendale), per realizzare un bene più ampio e condiviso.

In tutti questi casi l’equità non elimina la regola, ma la fa vivere. In termini organizzativi potremmo dire che l’equità è una forma di accountability sostanziale. Non è solo rispetto delle procedure, ma responsabilità verso l’impatto reale sulle persone e sulle comunità. È una virtù che impedisce all’impresa di trasformarsi in burocrazia, ricordandole che la sua missione non è produrre carte, né solo profitto, ma promuovere giustizia sostanziale. Non a caso Aristotele lega l’equità alla saggezza pratica. Essa richiede discernimento, capacità di valutare, esperienza. Per questo non può essere lasciata al caso, ma deve essere coltivata come virtù delle persone che operano nei ruoli decisionali. Ecco perché, tradotto nel lessico contemporaneo, l’equità diventa un principio guida della corporate social responsibility; essa insegna il valore delle regole sì, ma sempre con la flessibilità di un regolo che, all’occorrenza, sa piegarsi per misurare meglio i bisogni concreti delle persone.

La lezione aristotelica ci invita allora a una riflessione di fondo. Senza regole, non c’è giustizia e tutto diventa arbitrio. Ma senza equità, le regole diventano gabbie che possono tradire il loro stesso scopo. L’equità non è una scorciatoia, ma la prova che la giustizia non può mai ridursi a numeri e procedure. Per questo essere equi è faticoso; richiede impegno, discernimento, responsabilità. Per l’impresa che abbia a cuore l’impatto sociale e non solo la redditività finanziaria – e per ogni organizzazione che si voglia responsabile – perseguire l’equità significa riconoscere che indicatori e bilanci hanno senso solo se accompagnati dalla virtù di chi sa leggere il volto concreto delle persone. In altre parole, l’equità è ciò che salva la giustizia d’impresa dal rischio di diventare cieca.

E forse proprio qui sta la forza della filosofia antica: ricordarci, con il regolo di Lesbo, che la misura più giusta non è quella rigida, ma quella che sa piegarsi al particolare. Un’impresa sociale che coltivi questa virtù non sarà meno rigorosa, ma più fedele alla sua missione: costruire relazioni giuste e generative, dove ciascuno possa offrire un contributo utile e ricevere “il suo”.

Coltivare l’equità, dunque, non è un lusso per pochi, ma una responsabilità strategica per ogni impresa che voglia essere davvero sostenibile e giusta.

 

Pubblicato su "EVOLUTION. Il magazine di AnimaImpresa", n. 13, ottobre 2025.

 

 



[1] M. Sandel, Giustizia. Il nostro bene comune (2010), Feltrinelli 2013.

[2] Aristotele, Etica Nicomachea, V, 1137b 26-28.

[3] Aristotele, Etica Nicomachea, V, 1137b 12-15.