Lo sport e l’arte di educare

 

by Francesco Occhetta

 

 

 

tratto dal blog “L’umano nella città” (9 giugno 2016)

 

 

 

Il volume che presentiamo sull’ultimo numero di La Civiltà Cattolica, costituito da una sinfonia di voci esperte sul tema, lancia una sfida culturale ed educativa. Per gli educatori rimangono aperte alcune importanti domande: è meglio vincere facendo giocare i più bravi, o far giocare tutti rischiando di perdere? Quale tipo di uomo si vuole formare: un competitore individualista, o un agonista solidale? Inoltre, le società occidentali dovrebbero chiedersi perché molti giovani siano disposti anche a morire (a causa del doping), pur di vincere. L’antidoto ai grandi interessi e alla corruzione che attraversano il mondo dello sport rimane il dialogo tra formazione sportiva e formazione umanistica. Come un equilibrista esposto al rischio della caduta, lo sportivo deve dimostrare, attraverso il sacrificio, di forgiarsi nel valore.

 

 

 

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All’autore, Luca Grion, filosofo morale e responsabile della scuola di politica e di etica della diocesi di Udine, ho posto alcune domande per illuminare la lettura del testo appena pubblicato.

 

 

 

Sport come scuola di vita, dunque. A guardare le cronache che quotidianamente riempiono i giornali sembrerebbe una retorica ormai logora. Non è così?

 

Sono convinto che la pratica sportiva possa rappresentare davvero una grande risorsa educativa, capace di contribuire con efficacia alla maturazione dei giovani, insegnando loro il valore della fatica e del sacrificio, il gusto dei risultati ottenuti con impegno e costanza, promuovendo l’amicizia e una cultura di ospitalità e di pace, educando a perdere senza umiliazione e a vincere senza arroganza. Può, ma non è affatto scontato che lo sia davvero! Fare dello sport un luogo di crescita umana e di maturazione di virtù positive non è un processo automatico, ma un preciso atto della volontà che richiede consapevolezza, impegno e determinazione. Soprattutto è necessario riconoscere e promuovere con coerenza il ruolo educativo dello sport. Una cosa, però, va detta con la necessaria schiettezza: questo, al di là delle dichiarazioni di rito, non sembra essere, purtroppo, la principale preoccupazione di coloro che istituzionalmente sono chiamati al governo del mondo dello sport.

 

 

 

Cosa serve per trasformare una possibilità in una realtà concreta?

 

Prima di tutto servirebbe un’assunzione di responsabilità da parte degli adulti. Troppo spesso noi adulti siamo divisi tra una retorica dello sport come preziosa agenzia educativa alla quale affidare la maturazione dei nostri figli e una prassi quotidiana imperniata sul cinismo della vittoria a tutti i costi. Peccato che i figli non ascoltino le parole e apprendano per imitazione dai comportamenti. A mio avviso lo sport avrebbe bisogno di un profondo ripensamento, che metta al centro il bambino e il ragazzo e non il risultato. Del resto, se ha ragione chi pensa che nello sport – e nella vita – la vittoria è l’unica cosa che conta, allora non c’è spazio per chi perde e si afferma una logica dell’esclusione e dello scarto. Se conta solo vincere, i meno dotati, gli “scarsi”, devono accomodarsi in panchina o accontentarsi di guardare la partita dagli spalti. Se conta solo la vittoria, tutto ciò che consente di conseguirla è, di fatto, consentito; anche l’imbroglio. Del resto quante volte si insegna ai ragazzini a simulare, a “farsi furbo”. Per altro verso, se il valore di uno sportivo si misura solo in termini di risultati, quando questi non arrivano poco conta che si sia dato il massimo e che ci si sia impegnati a fondo. Chi perde è un perdente. Non solo. In un simile contesto l’avversario non è più il compagno di viaggio che mi consente di praticare l’attività amata e di esprimere al meglio il mio potenziale; l’altro diviene il nemico da sconfiggere, l’ostacolo da rimuovere.

 

 

 

Hanno quindi ragione coloro che pensano che l’agonismo sia all’origine dei mali dello sport e che la soluzione sia uno sport non agonistico?

 

Non credo che questa sia una buona soluzione. L’agonismo è il sale dello sport: senza di esso tale pratica sarebbe insipida (incapace di appassionare e motivare); in eccesso, però, rende tutto immangiabile. Quando si gioca, si gioca per vincere ed è proprio il modo in cui si certifica la vittoria ad organizzare le regole del gioco. Guai, però, a confondere il fine di un gioco col suo significato per l’uomo. Il fine di una partita di tennis è fare più punti dell’avversario, quella di una gara di velocità arrivare primi al traguardo e così via. Il senso umano della pratica sportiva è ben più complesso e articolato. È sfida intelligente con i propri limiti, coraggio di mettersi alla prova, umiltà di accettare le proprie debolezze, solidarietà con i compagni di squadra, lealtà con gli avversari. Il senso umano dello sport è custodito nella sua capacità di favorire la fioritura della persona. In questo un pizzico di agonismo non guasta affatto, anzi, ma se si eccede si rischia di rovinare tutto. I mali dello sport nascono dall’incapacità di vivere con equilibrio la complessità degli elementi in gioco in quel tipo di pratica. Tale perdita di equilibrio si manifesta ogni qual volta vien meno la capacità di far convivere in armonia competizione e responsabilità, agonismo e valori, libertà e doveri. Il vero cuore della questione consiste nel tenere assieme, in un tutto coerente e armonico, la pluralità di valori veicolati, promossi e incentivati dalla pratica sportiva. Ma per farcela ci vuole allenamento, determinazione, tenacia.

 

In una battuta la possibilità di una competizione responsabile, in cui l’agonismo e il piacere per la vittoria non vada a deterioramento degli altri valori umani ugualmente in gioco.

 

 

 

Ma c’è posto per l’umiltà nello sport? Se il fine del gioco è superare costantemente i propri limiti, infrangendo progressivamente ogni record, come si fa ad affermare, nello stesso tempo, che i propri limiti vanno riconosciuti e accettati.

 

Ci sono limiti e limiti. Alcuni sono ostacoli che dobbiamo saper rimuovere e che ci si presentano dinanzi come altrettante sfide da vincere. Quando ce la facciamo, quando superiamo quelli che credevamo essere, sbagliando, i nostri limiti, ci scopriamo migliori di quello che pensavamo e questo ci rende giustamente orgogliosi. Ma ci sono anche altri limiti, che definiscono i confini della nostra identità; limiti che debbono venir riconosciuti e accettati anche quando ci parlano delle nostre fragilità (non tutti siamo ugualmente dotati e c’è sempre chi è più bravo, più veloce, più capace). La vera sfida, che riguarda l’uomo prima che lo sportivo, è imparare a distinguere i primi dai secondi. Farlo non è semplice: ci vuole pazienza, per gestire anche ciò che non ci è possibile modificare; ci vuole sagacia, per trovare il modo di valorizzare anche le nostre debolezze; ci vuole coraggio, per sfidare noi stessi (prima che gli altri) senza scorciatoie e senza sconti; ci vuole tenacia, per tener duro anche quando costa fatica; ci vuole prudenza, per saper perseguire il bene e il bello in ogni situazione. Soprattutto servono buoni maestri che insegnino tutto questo ai più giovani, possibilmente con poche parole e tanti fatti.

 

 

 

Quanto sono importanti le regole nello sport?

 

Direi che sono essenziali. Le regole sono la condizione affinché si apra lo spazio del gioco e questo rappresenta un aspetto molto interessante, perché dimostra che libertà e regole non sono in conflitto reciproco, anzi. Si è liberi nel gioco proprio grazie alle regole che ne proteggono il senso e che favoriscono l’espressione delle capacità dei partecipanti. Questo è un insegnamento prezioso di cui possono fruire i cittadini di domani: non si è liberi dalle regole, ma entro regole buone. Per esprimere compiutamente se stessi non bisogna sciogliere i vincoli che ci legano agli altri, ma costruire legami sani e positivi entro i quali mettere a frutto i propri talenti.

 

 

 

Quali sono i principali mali che affiggono lo sport?

 

E’ il doping. Preoccupa la diffusione delle pratiche dopanti sia tra i professionisti, sia tra i semplici amatori. Ma il doping è il sintomo visibile di un male più profondo: l’aver confuso il gusto della sfida personale con la vittoria ad ogni costo, l’aver svenduto i valori sociali e comunitari dello sport all’interesse economico, l’incapacità dell’adulto di essere realmente tale. Se la prima parte del libro cerca di descrivere lo sport “come dovrebbe essere”, la seconda parte guarda senza sconti la realtà del mondo sportivo così com’è, denunciandone limiti e ipocrisie. Come detto lo sport – sia quando praticato, sia quando semplicemente fruito come spettacolo – è un potente veicolo formativo, capace di incidere in profondità sugli stili di vita e sui modi di pensare delle persone. Affinché ciò accada realmente è però necessario che tale ruolo educativo sia riconosciuto e incoraggiato. Se ciò non avviene, se cioè manca la consapevolezza del ruolo formativo dello sport, quest’ultimo continua a veicolare valori, ma corre il serio rischio di favorire il diffondersi di valori negativi. Per questo è necessario puntare con decisione sulla formazione dei futuri allenatori e dirigenti. Solo promuovendo una sana cultura dello sport si può sperare di arginare i mali che lo affliggono.

 

 

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Sport e bene comune: una sfida educativa

Lo sport può essere una preziosa agenzia educativa al servizio del bene comune; per esserlo realmente ha bisogno di volontà e consapevolezza, di impegno e determinazione. Soprattutto richiede adulti credibili, all’altezza del loro ruolo
Lo sport può essere un formidabile strumento educativo al servizio della persona e della città. Lo sport – senza troppe parole, ma attraverso una pratica di vita coinvolgente e appassionante – può insegnare l’importanza della disciplina e della tenacia, il gusto della sfida, la bellezza della fatica condivisa, dell’amicizia, dell’accoglienza. Può, ma non è affatto detto che lo faccia.

Affinché la pratica sportiva possa esprimere il suo potenziale formativo – allenando virtù utili sul terreno di gioco, ma ancor più preziose nella vita – è necessario che la valenza pedagogica dello sport venga riconosciuta e incoraggiata. Abbiamo quindi bisogno di allenatori (e di dirigen-ti e di federazioni!) che siano, certo, professionisti seri e preparati sotto il profilo tecnico, ma anche sensibili e competenti sotto il profilo educativo. Sul nesso essenziale tra sport ed educazione si è espresso anche papa Francesco nel discorso tenuto in occasione del 70° del CSI.

Con le olimpiadi di Rio ormai alle porte, non guasta ricordare quanto sostenuto da Pierre de Coubertin a proposito del significato dello sport per l’uomo e per il cittadino. Egli, richiamandosi alla lezione di Thomas Arnold, sosteneva che l’attività sportiva è in grado di deporre nell’organismo dell’atleta il germe di qualità fisio-psicologiche estremamente preziose: tenacia, coraggio, sicurezza, disciplina, ecc. Qualità, però, che restano circoscritte all’esercizio fisico che le ha generate se non sono diffuse a tutto “l’organismo personale”. Tali virtù, invece, dovrebbe-ro diventare risorse preziose con le quali affrontare, anche fuori dal campo, le sfide della vita. Abbiamo quindi bisogno di educatori intelligenti e competenti, che allenino il corpo e l’animo dei nostri ragazzi e che insegnino loro come mettere pienamente a frutto queste risorse interiori. Ma cosa potrebbe (dovrebbe) insegnare la pratica sportiva ai nostri figli? Provo ad abbozzare un piccolo catalogo, certo non esaustivo, e prevengo subito l’obiezione di quanti diranno: «E cos’altro ancora!» chiedendo loro: «Di cosa possiamo fare a meno?».

Imparare ad apprezzare il senso della fatica. A generazioni alle quali, per loro fortuna, molto è offerto senza sforzo, risulta prezioso far conoscere il sapore dei risultati conquistati con sudore e tenacia. Giocando si può imparare che i risultati importanti non sono mai gratis, ma richiedono sacrificio, pazienza e attesa. Questa lezione, poi, può (dovrebbe) essere trasferita nell’ambito delle relazioni amicali e affettive, della maturazione della propria vocazione professionale, della conquista di ciò che più ci sta a cuore. Ciò che vale davvero richiede impegno e dedizione, ma regala anche le gioie più grandi. Sembra retorica, ma guardare negli occhi un bambino che riesce in ciò che, sbagliando, credeva di non poter fare, ci conferma che la verità dell’umano passa attraverso la via stretta di una fatica sensata.

Imparare a vincere senza arroganza. Il problema dello sport non è l’agonismo, che ne rappresenta anzi l’anima. Il vero problema è l’eccesso di agonismo, l’esasperazione della vittoria come unico fattore determinante a cui tutto il resto può essere sacrificato. L’agonismo, nello sport, è come il sale nella minestra: la sua assenza rende insipido il gioco competitivo; l’eccesso lo rovina. Ai nostri figli dobbiamo invece insegnare a lottare onestamente per la vittoria, mettendo a frutto i loro talenti. Se hanno delle capacità per conseguire risultati importanti è bene che lavorino sodo per realizzarli; e noi genitori dobbiamo gioire con loro quando vincono, perché il bello della vita è anche riuscire a raggiungere gli obbiettivi che ci eravamo prefissati, godendo della soddisfazione di aver messo a frutto le nostre capacità. Al tempo stesso dobbiamo anche insegnare loro a non scadere nell’arroganza, a essere consapevoli che dietro ogni successo si cela la possibilità dello scacco, che l’umiltà è virtù preziosa in quanto chiamata a moderare gli slanci di un’ambizione che, se non governata, ci porta inevitabilmente fuori strada.

Imparare a perdere senza umiliazione. Lo sport può insegnare una verità preziosa: noi non ci identifichiamo coi nostri errori. Anche se falliamo non siamo dei falliti (così come se perdiamo non siamo dei perdenti); possiamo sempre girare pagina e ricominciare, anche quando sembra impossibile. Nella vita, del resto, è inevitabile sbagliare, magari fallire tragicamente; eppure noi non siamo (solo) i nostri errori, siamo molto di più; siamo possibilità viva di cambiamento e di nuovi inizi. Vinto è chi si arrende alle sconfitte, non chi fallisce. Un vecchio adagio, del resto, ricorda che la sconfitta insegna molto più della vittoria. È il paradosso dell’umano: cresciamo nella sofferenza cercando la felicità. Quale palestra migliore dello sport per capirlo? Il bello dello sport, infatti, è proprio questo: che dopo ogni sconfitta si può provare di nuovo, rinnovando la sfida con maggiore competenza e determinazione.

Imparare il senso della giustizia e il valore dell’onestà. C’è chi ama ripetere che, nello sport, non è vero che vincere sia la cosa più importante; vincere è l’unica cosa che conta. Se questo fosse vero, tutto ciò che consente di vincere diverrebbe lecito, anche l’inganno, purché non si venga scoperti (serve ricordare che ci sono allenatori che insegnano ai pulcini come simulare un fallo in area?). Ma i mali che affliggono lo sport – doping in primis – crescono proprio da questa idolatria della vittoria che fa perdere all’atleta la capacità di tenere in equilibrio i molti valori dello sport . Fair play – gioco corretto, gioco leale – non significa solo “stare alla regole”, ma capirne il senso: è nelle regole e grazie alle regole che si dischiude lo spazio del gioco, entro il quale mettiamo liberamente alla prova le nostre migliori capacità. Le (buone) regole sono infatti un veicolo di libertà, perché ci mettono nelle condizioni di conseguire ciò che ci sta a cuore. Essere liberi, e questo vale per l’atleta, per l’uomo e per il cittadino, non significa sciogliere i legami che ci stringono agli altri, ma riconoscere e rinsaldare i vincoli buoni.

Lo sport, quindi, può (e dovrebbe) essere una preziosa agenzia educativa al servizio del bene comune; per esserlo realmente ha bisogno di volontà e consapevolezza, di impegno e determinazione. Soprattutto richiede adulti all’altezza del loro ruolo, esempi credibili che senza tante pa-role insegnano facendo (e facendo assieme).